La nostra storia

Cervere, luglio 1961.

Vivalda di Cervere, Vivalda d’Argentina, un giorno insieme in quel cortile che è padre e madre. Una foto prima di sedersi a tavola tutti insieme, con i ravioli del plin di Maria e l’arrosto della vena al nebbiolo di Eugenio. Fuochi d’estate, luce nella memoria.

“Amo questo mondo fisico. Amo questa vita insieme a te. E il vento e la campagna. Il cortile, la ghiaia sul vialetto. L’erba” (Kent Haruf).


“La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre come tu la sai. E tu ricerchi là le tue radici, se vuoi capire l’anima che hai” (Francesco Guccini)

La casa in cui un giorno non definito di primavera dell’anno 1815 Alessandro Vivalda aprì bottega è quella di famiglia, pare fosse maggio; vero o mito che sia, una storia che comincia a maggio ha dentro di sé il presagio e il fascino dell’emozione.
 
È un attimo immaginare gli stipiti nel loro scatto rudimentale, ed il pesante uscio chiodato aprirsi al sole ed alla polvere della strada.
Quella strada che oggi è l’arteria principale della provincia di Cuneo, in quel giorno del 1815 aveva primule ed erba spontanea ad insidiarla, irregolare, infida per le ruote cigolanti dei carri sempre a rischio di scivolare nei fossi laterali.
 
Una giostra di cani eccitati dai giochi dei bambini, un profumo di fieno abbagliante come il sole che dilaga sulla facciata dell’edificio.
 
No, non “edificio”. “Casa” è la parola giusta.
 
Un edificio è fatto di muri, una casa è fatta di quello che palpita tra quei muri.
Una casa che da quel giorno si aprì accogliendo compaesani alle ore dei pasti o nel sonnolento chiacchiericcio del pomeriggio. Un po’ come mangiare in cucina, come essere della famiglia.
 
Ogni tanto il notabile del luogo a farsi vedere la domenica, panciotto e cipollone a penzo­lare dalla saccoccia, cappello e baffi da istituzione, lingua italiana per sfoggiare ogni tanto un’istruzione laddove il dialetto bastava a dare spessore ai pensieri.
 
In tavola pesci di fiume, grandi polente con la speranza di un po’ di cacciagione a rallegrare il piatto, salami e pancette, e quel che c’era in salamoia, verdure fresche od in composta, frutta fresca o sciroppata, messa via dopo la cot­tura nel pentolone di rame sul fuoco acceso alla fine dell’estate.
E qualche sanguinaccio, minestroni pieni dell’aroma e dei colori degli orti della valle di Stura: tutto è molto più vicino all’oggi di quanto sembri.
 
Le animelle, le erbe spontanee d’acqua e di campo, i piedini del maiale a bollire in acqua e aceto e l’odore penetrante a saturare le volte. E poi il fiume là sotto; la campagna e l’allevamento erano naturalmente la fonte prima di materia, nella logica autarchica dei tempi.
 
Fondamental­mente non si andava fuori per cercare qualche gusto nuovo, si andava all’osteria per quei gusti conosciuti a memoria, ma intensi, suggestivi, con dentro il movimento stesso (tramandato da secoli) della mano che li preparava.
 
Arrivavano i pescatori madidi e stremati, rovesciavano sul tavolo in legno della cucina le loro sacche di “barbi”, cavedani, pescetti d’ogni genere, si accomodavano al tavolo fratino facendo fuori con rapidità sorpren­dente quartini su quartini di un rosso frizzante a metà tra un dolcetto e una barbera.
 
Lo stesso facevano i mediatori, i contadini che portavano la verdura, gli al­levatori che tiravano su due bestie a stagione ancor grazie, chi portava le uve, chi faceva il vino con rudimenti da alchimista.
 
E la stalla, il fie­nile, il portico già vecchio allora di almeno un secolo; i primi viaggiatori che si fermavano per rifocillare sé stessi ed il cavallo, e poi dormivano in una delle due stanze proprio sopra la trattoria.
 
Alessandro Vivalda davanti al pesantissimo tripode di legno che faceva da asse era a tagliare conigli, o al tavolo a toglier la pelle alle rane di montagna, tirare via lumache dal guscio, pulire pesci di fiume, mescere vino di uve pestate dalla famiglia riunita al completo.
 
Anni di cortile, tra l’enorme pianta di lauro, la porticina verso l’orto, la stalla e le sedie di vimini, quelle su cui i vecchi sedevano verso sera, quando il caldo si ri­traeva lasciando il posto ai primi spiragli della sera; ed il portico tornava a popolarsi, i vecchi uscivano allo scoperto guardinghi come lombrichi.
 
Arrivava anche l’arrotino, l’impagliatore di sedie, gli zii e gli altri parenti, seduti su sedie o gradini e disposti a semicerchio sullo spiazzo; rimboccavano l’orlo dei pantaloni di tela fin sulle ginocchia respirando l’aria immobile, sulle loro teste le lenzuola stese ad asciugare.
 
Poi, ad oscurità piena, le falene attratte dalla luce del portone, gli ultimi sussulti di brace sotto il pentolone pieno di albicocche da sciroppare, e Alessandro a fare capolino ogni tanto fuori dall’osteria, a contare quanti erano per sapere per quanti preparare cena. Adesso immaginate che si scoperchi un pentolone, e un’onda densa di vapore caldo avvolga per qualche secondo la vista e la fantasia.
Appena si dirada eccoci all’oggi, come in un film, sono trascorsi in un abbagliante vortice di memoria due secoli.
 
La Corona Reale è diventata “Antica”, il vezzo regio del nome passa per i Re Sabaudi che non mancavano un piatto di Insalata Russa e di Finanziera a cavallo tra Otto e Novecento; l’ombra del portico e delle sue ferite di guerra è diventata quella del glicine: da maggio a maggio, solo che ci passano duecento anni, fatti di storia quotidiana, di tenacia e di sapere tramandato, storia quotidiana senza lettere maiuscole, tranne quella del cognome, Vivalda, perché non è mai cambiata la guida della famiglia.
 
 
Due Alessandro, due Lorenzo, Giovanni, Eugenio… Ed oggi, nel benevolo e sorridente ricordo di Renzo, c’è Gian Piero, che ad inizio anni Novanta è partito da un concetto ben chiaro: la tradizione è il centro, ma non è un motore immobile: non va solo venerata con la ripetitività di una litania, ma stimolata, messa alla prova, va fatta rifiorire con tecniche nuove.
 
Non è un manoscritto da tramandare, ma un’anima viva da espandere, attraverso la fedeltà alla materia prima.
 
Il ristorante, da apprezzata trattoria di provincia, è diventato in cinque lustri un locale tra i più decorati in Italia, insignito della prima stella Michelin nel 2003 e della seconda sei anni più tardi, oggi nei circuiti più prestigiosi quali Les Grand Table du Mond e inserito da tempo nel circuito esclusivi di Relais&Chateaux.
 
 
In filigrana sempre loro, le materie prime di stagione, così variegate e irripetibili, il Tartufo Bianco d’Alba su tutti, ed a cascata un arcobaleno di ortaggi, di tagli nobili del Fassone Piemontese, di paste ripiene, di soavità e sostanza nello stesso piatto.
 
 
Gian Piero Vivalda ha creato la scintilla che ha idealmente unito la mano di nonno Eugenio e papà Renzo con l’esperienza maturata negli stage delle cucine di George Blanc a Vonnas e da Alain Ducasse a Parigi. Ciò che si porta a casa di più prezioso spesso non è materiale, e questo insegnamento è ogni giorno brillantemente raccolto anche dal sous chef Christian Conidi.
 
Il totale è spesso più grande della somma delle singole parti, specie per chi non si stanca mai di imparare.
 
Oggi l’Antica Corona Reale è il capo del filo di un unico lungo gomitolo, lungo duecentosette anni.
 
E che da sei si è arricchito di un nuovo fiore all’occhiello, l’AtelieReale, sua naturale derivazione, ossia laboratorio artigianale di lievitati da forno dotato delle attrezzature più moderne di lievitazione e cottura, ma rigorosamente artigianale nell’impostazione.
 
Il laboratorio nasce al lato del dehor, nell’ultima ala della antica casa ristrutturata, ideale completamento di un cerchio. Inizialmente la produzione era quasi per intero finalizzata al ristorante; nel tempo si è ampliata ed oggi propone prodotti di alta qualità anche per clienti esterni quali grissini stirati a mano con olio extravergine ligure Oro Taggiasco, panettoni classici e glassati con lievito madre e selezionatissimi ingredienti, il tutto nel rispetto dei tempi di produzione artigianale.
 
Artigiano, arte: termini che probabilmente, consapevolmente o meno, risuonavano nella fantasia di Alessandro Vivalda, mentre la sua spalla spingeva il solenne uscio verso il primo giorno di vita e di luce della Corona Reale, e il primo giorno d’una storia simile deve per forza fiorire a maggio.

In ricordo del nostro amato Renzo


La morte è spegnimento, tu invece sei stato acceso dal primo all’ultimo dei tuoi giorni. Per amare fino al midollo la vita bisogna mescolare il sacrificio alla leggerezza. Ma una leggerezza che è più profonda di qualunque ragionamento.

La leggerezza sempre allegra di pomeriggi al sole, sgusciando lumache o pulendo pesci di fiume, e fermando la bellezza della vita nel profumo del rosmarino, nell’ombra protettiva della casa di famiglia, che è prima madre poi figlia, nell’umido delicato di una cantina, nel tintinnare felice di posate e bicchieri che danno al battito del cuore una musicalità che sa – quella sì – di paradiso.

Un paradiso qui ed ora, non di un’altra dimensione. Un paradiso sudato, lottato, difeso, nel quale oggi brillano i tuoi occhi come fuochi accesi di cucina, nell’eroismo di chi ama il quotidiano, nella dolcezza guizzante come un cuore, quello che oggi condividi con Maria Teresa, con Eugenia, con tutti, perché nel tuo cuore non manca nessuno.

 Ciao Renzo, ricordati la promessa, il primo che passa di là inizia ad apparecchiare la tavola.